Ritrovamento

Come ho trovato il relitto del piroscafo Transylvania


“Ingegnere qui ci sarebbe da cercare un relitto, potrebbe darci una mano?”
Questa la telefonata che a fine Aprile 2011 mi arriva inaspettata.
E’ il Maresciallo Lenzini, del Gruppo Subacqueo dei Carabinieri di Genova.
Noi, la mia ditta Gaymarine, abbiamo fornito il robot PLUTO a loro. Ci hanno sempre lavorato molto bene, in ricuperi anche clamorosi come quello dell’auto tirata su dal lago di Como su indicazione di una “veggente”.
Qui non c’è veggente, il relitto del Transylvania si sa dov’è ma nessuno l’ha mai veramente localizzato né tantomeno identificato. Il Maresciallo Lenzini mi dice che la zona dove cercare è circoscritta e la profondità non eccessiva, anche se probabilmente al di là della portata del loro PLUTO che è di 300 metri.
Io d’estate sono in giro con il mio catamarano a vela DAEDALUS a mettere il naso su fondali sempre più profondi per sperimentare le apparecchiature progredite che mi viene in mente di realizzare.
“Maresciallo, a Maggio esco e per prima cosa vengo lì”

Mi sembra un lavoretto facile facile, del tipo: vado, trovo e torno.
Il mio DAEDALUS è una barca molto particolare che ho progettato e costruito quasi vent’anni fa. Ci ho fatto un giro del mondo a vela durato cinque anni e poi trascorso altri due anni per attraversare ancora una volta l’Oceano Pacifico, fra isole tropicali e tranquille spensierate popolazioni, per ciò che mi riguarda il posto più piacevole della terra.

Finiti i sogni oceanici il DAEDALUS nel Mediterraneo tira fuori la sua grinta di ricercatore ad alta tecnologia. Attrezzato come una nave oceanografica in miniatura, come le grandi navi possiede un sistema di posizionamento dinamico, in pratica un’elica ausiliaria comandata da computer che automaticamente mantiene la barca ferma in un posto preciso senza bisogno di ancorarsi, ancorarsi dove si vuole far scendere PLUTO a grande profondità sarebbe impossibile.
Però il robot, sul fondo, con le luci vede solo a qualche metro di distanza e con i sonar a non più di cento metri. Dunque non è adatto a fare una ricerca a largo raggio.
Prima di lanciarlo bisogna avere un punto. Come trovare il punto? Nel nostro caso del Transylvania, come localizzare il relitto in modo che PLUTO possa scendere ad ispezionarlo?
Ecco che qui interviene un altro dei miei “aggeggi”, un sonar a scansione laterale .
Cos’è un sonar? Ultrasuoni, vibrazioni ad alta frequenza non udibile, che vengono lanciati in acqua concentrati in un sottilissimo pennello, tutti gli oggetti sul suo rapido cammino producono echi che vengono registrati, muovendo il pennello si disegna una mappa del fondo.
Bene, il sonar del DAEDALUS “fotografa” il fondo marino ad un ritmo di 10 chilometri quadrati ogni ora.

Dunque penso ad un lavoretto facile.
Arrivo con la barca a Bergeggi, il tempo è buono, tutta la squadra dei Carabinieri Subacquei mi raggiunge a bordo ed iniziano a mostrarmi la documentazione che hanno raccolto.
Leggendo il racconto del Parroco di Bergeggi cerco di indovinare la distanza: “…non vedi che batte bandiera inglese?…” racconta. A che distanza si può distinguere una bandiera? Non credo oltre 2 km, così sarebbe troppo vicino alla costa. Ma allora se certe affermazioni sono palesemente assurde, come si può credere al resto? Poi la cartina disegnata dal comandante del sommergibile tedesco: anche questa pone il punto del secondo siluro troppo vicino alla costa. Bè, decido, cominciamo una “spazzolata” sonar dei fondali sistematica, magari partendo dalla zona più probabile. Via, si parte.

A farla breve, quello che sembrava un lavoretto facile, tentato senza successo anche da un mio rinomato collega-concorrente francese, si è trasformato in 5 giorni di navigazione avanti-indietro, su e giù, cartografando i fondali di una vasta zona con il risultato che nessuna delle tante macchie scure rilevate dal sonar poteva ragionevolmente rappresentare il relitto di una nave lunga 160 m. Abbiamo scoperto un grande canalone davanti a Spotorno, pieno di rocce fino a fondali di 700m: saranno tutte rocce o in mezzo ci può essere quello che cerchiamo?
Troppo lungo e faticoso, penso io, mandare PLUTO su ogni contatto per vedere se è roccia o il Transylvania.
Allora mi viene un’idea. Procurarmi un magnetometro per rilevare la presenza di una massa ferrosa. Naturalmente il mio spirito poco convenzionale mi porta a pensare ad uno strumento non come quelli che esistono e che vengono trascinati lentissimamente dietro la nave, ma ad una sonda che mando giù rapidamente verticale sulla macchia come se fosse il PLUTO.

“Allora, caro Maresciallo, ci rivediamo appena sono pronto con il magnetometro”
Detto fatto. Mi procuro un magnetometro a protoni (che funziona sul principio della risonanza magnetica nucleare) , preparo uno schizzo di uno scafandro per mandarlo fino a 2000m di profondità e lascio in ditta le istruzioni per poterlo collegare allo stesso cavo del PLUTO al posto del veicolo.

In attesa proseguo la mia vacanza in Corsica, isole toscane e Sardegna.
Vacanza per modo di dire, perché passando da una spiaggia assolata ad una baietta tranquilla, durante i percorsi il mio sonar segnala qualche anomalia e con il PLUTO scopro che le anomalie sono causate da mucchi di anfore, resti di altrettante navi antiche romane affondate con il loro carico a profondità di molte centinaia di metri, quattro ne trovo. Allora lavoro anche di scartoffie per denunciare i ritrovamenti alle Soprintendenze competenti.

A fine Settembre mi arriva il magnetometro tanto atteso. Ha preso la forma di un gigantesco cottonfioc, lungo due metri con due ingrossamenti alle estremità, uno contiene il sensore a risonanza magnetica, l’altro tutta l’elettronica. Ora bisogna provarlo. Mi dirigo da La Spezia, porto del DAEDALUS, verso Bergeggi, passando sopra il relitto di un pezzo della petroliera Haven che giace sul fondo a 400m. Il tempo è buono, mare calmo come un olio, piazzo la barca in posizionamento dinamico sulla verticale della Haven e mentre gli automatismi computerizzati lavorano per conto loro, io lancio il magnetometro. Giù veloce in verticale. Fino a 200m di profondità, nulla, lettura praticamente costante del campo magnetico terrestre. Poi il valore inizia ad aumentare, sempre più rapidamente man mano che il sensore si avvicina al relitto.
Indicazione chiara ed inequivocabile della presenza di ferro. Tanto mi basta. Sono pronto a trovare il Transylvania.

Dirigo a Bergeggi e mi accingo a telefonare al Maresciallo Lenzini ma vengo preceduto da lui:
non so come ma mi hanno già visto: nulla sfugge ai Carabinieri.

Andando verso Bergeggi passo sopra una collinetta sottomarina che ha in cima una struttura delle dimensioni giuste. Ci butto sopra il magnetometro ma fino a toccare il fondo l’indicazione senza variazioni mi dice che si tratta di rocce. Il giorno seguente i Carabinieri sono occupati con altro e io vado a sondare le macchie più probabili. Faccio 4 lanci tutti infruttuosi. Ritorno all’ancoraggio di Bergeggi piuttosto scoraggiato: com’è possibile che un relitto così grande mi possa sfuggire?
Passo la serata a rivedere tutti i tracciati del sonar fatti a Maggio. Alla fine mi cadono gli occhi su due echi un po’ strani, sono due oggetti su una parte di fondale poco accidentato, poco probabile che si tratti di rocce, però io cerco una sola macchia lunga più di cento metri.
Domani andrò a buttargli su il magnetometro.

I Carabinieri hanno altre attività quindi riparto da solo. Metto il DAEDALUS in automatico sopra il punto e mando giù il “cottonfioc”. Il fondo è a oltre 600m, ogni 50m di discesa scrivo le cifre che rimangono circa costanti, poi improvvisamente noto una variazione, in meno questa volta, che si accentua rapidamente: la sensazione è immediata, come quando sai di avere fatto centro ad occhi chiusi.
Ci siamo, ho ritrovato il TRANSYLVANIA!
Stavolta non mi trattengo, acchiappo subito il telefono:
“Maresciallo ci siamo. E’ rotto in due tronconi, domani andiamo a vedere”

Ricupero e smonto il magnetometro e voglio ancora passare con il sonar per fare dei rilevamenti ortogonali e determinare con precisione le posizioni.

A bordo del DAEDALUS ho due robot: uno, il più vecchio, è PLUTO 1000 , come quello dei Carabinieri, ma in versione speciale per poter scendere fino a 1000m di profondità anziché limitato a 300m. L’altro si chiama PLUTO PALLA, è un prototipo nuovissimo che sfrutta solo la testa del vecchio PLUTO ma con tecniche innovative che consentono profondità massime fino a 4000m.
PLUTO PALLA pesa solo 60kg invece dei 150kg del vecchio, ed è maneggevolissimo, tanto che sul DAEDALUS me lo posso usare da solo anche senza l’aiuto di nessuno.
L’intero sistema è composto così: sulla barca un pannello di comando è a disposizione del pilota che da i comandi al veicolo e che vede le immagini prese dalla telecamera del veicolo, sempre sulla barca c’è un rullo automatico con 2000m di sottile cavo a fibra ottica la cui estremità si collega al veicolo subacqueo. Il cavo fa passare tutti i segnali nei due sensi dal veicolo al pilota e viceversa.
I veicoli subacquei PLUTO sono dei piccoli sottomarini, dei batiscafi in miniatura telecomandati dalla superficie e che possono muoversi agevolmente in acqua spinti da varie eliche che eseguono i comandi del pilota.

PLUTO PALLA è pronto all’immersione con telecamera che riprende in alta definizione e che scatta fotografie.
Martedì 4 Ottobre siamo sul posto in posizionamento dinamico, con la motovedetta dei Carabinieri che veglia su di noi.
Tutto pronto, PLUTO PALLA è in acqua e scende zavorrato con un sasso. In un quarto d’ora arriva sul fondo, sgancia la pietra e diventa a galleggiamento neutro, così i motori possono tenerlo in quota costante qualche metro sopra il fondo. Da sopra io lo dirigo per fare un giro su se stesso e guardarsi intorno con il suo sonarino di navigazione. Rilevo subito la presenza di un grosso oggetto a 70m.
Il veicolo è sceso un po’ più in là del previsto a causa di una corrente. Punto sull’oggetto e metto avanti mezza. Il fondo illuminato dal faro del PLUTO PALLA scorre veloce sotto mentre l’eco sonar dell’oggetto si avvicina.
Quando il sonar mi indica una distanza dal relitto di 10m rallento, mi tengo più vicino al fondo (parlo come se io fossi presente laggiù 630m più sotto) sono praticamente sicuro che quello lì sul sonar è il Transylvania ma vederlo sbucare dalle tenebre fiocamente illuminato dal faro e piano piano vederlo diventare un chiaro pezzo di rottame è una emozione che ripaga ore e settimane di lavoro.

C’è il pericolo di impigliarsi. La telecamera ha un campo visivo ridotto, bisogna girare il veicolo a destra e a sinistra per guardarsi intorno e anche ruotare la testa su e giù.
PLUTO PALLA cioè io, sono sul fondo, il relitto si estende fino a 20m sopra il fondo quindi è meglio salire fino alla parte più alta del relitto e da lì cominciare a muovermi. Ricordando che il cavo a fibra ottica galleggia all’insù verso il DAEDALUS devo stare attento a non passare sotto a nulla. Sono in vista di un piano del relitto, forse il ponte, quasi verticale. Lo seguo lentamente all’insù guardando verso l’alto che non ci siano cordami o strutture sopra il veicolo. Arrivo così su un bordo dello scafo che deve essere la falchetta. Candelieri e battagliola non esistono più ma il bordo è certamente la falchetta, ponte di coperta giù quasi verticale e fiancata dello scafo quasi orizzontale sotto uno spesso strato di fango come fosse neve, lo scafo è coricato sul fianco e posso andare avanti indietro lungo la falchetta senza rischio di incocciare strutture più alte.

Vado verso nord, guardando in giù da dove sono salito vedo l’argano delle ancore, allora è certo che quello sia ponte di coperta a prua. Procedo ancora sulla fiancata e vedo delle file di oblò. Occorre una prova di identificazione. Proseguo verso prua sulla fiancata e compare l’ancora. Questo è già un elemento di identificazione certa, l’ancora del Transylvania aveva una forma e struttura particolarissima.

All’indomani torniamo qui e completiamo la ricognizione. Insieme al Maresciallo e ai suoi colleghi seguiamo la struttura della nave e riconosciamo parti precise dello scafo come vari livelli del castello centrale, passacavi di ormeggio, un’ancora di rispetto fissata alla coperta. Notiamo che le sovrastrutture sono crollate e arriviamo fino al punto in cui le lamiere appaiono strappate e contorte dalla rottura dei due tronconi.
Al pomeriggio terza immersione alla ricerca del troncone di poppa.
Giace a circa 100m dalla prua, inclinato sulla destra ma di poco. Percorriamo la zona alta della struttura a livello delle scialuppe di salvataggio, vedo due gruette incrociate e dei cavi tesi orizzontali. Una piccola macchia bianca attaccata sotto un cavo mi incuriosisce, mi avvicino fino quasi a toccarla e riconosco il corallo bianco, la Madrepora oculata (vedi sezione biologia), lo stesso che avevo filmato sei anni fa a Santa Maria di Leuca per l’Università, mi avevano detto che era un fossile vivente, oggetto di studio e raro nel Mediterraneo, credo che i ricercatori saranno contenti quando glielo segnalerò, anche perché questo relitto ha 94 anni e così avranno una prova sicura di come cresce il corallo nel tempo.

Percorrendo la fiancata fino a poppa troviamo file di oblò spalancati e con i vetri rotti, probabilmente dall’esplosione del siluro, questa è proprio la fiancata sinistra colpita. Cerchiamo l’estrema poppa per vedere l’elica, La parte di scafo subverticale, che si incurva sotto a fare tetto, è costellata da piccoli coralli bianchi ma l’elica non si vede, forse è piantata nel fango del fondo.

Bene, abbiamo visto e tanto ci sarebbe da vedere ancora. Ho sentito vaghi accenni ad un barile pieno di sterline d’oro per le paghe dei militari. Se qualcuno ci crede potrebbe avere un motivo in più per andare a vedere.
Per ora il relitto lasciamolo lì, in pace, non dimenticando che è tomba di tanti.